30 novembre 2007

Questo sono io. E' una fototessera che ho dovuto farmi fare per il certificato di residenza. Quando lavoravo a Springfield. Il fotografo era un certo Groening. Era strano. Faceva le foto con i pennarelli - del resto era l'unico tipo di foto che accettavano negli uffici amministrativi di quella città. E Groening era il più bravo. Pazzo, ma bravo. Io me ne sono andato dopo circa due mesi. Non ero nè pazzo, nè bravo. Perlomeno nel fare quel tipo di foto.
29 novembre 2007
tarantonostra

Per il libro di Roth, non basterebbe un numero di CO, altro che di OE, e sicuramente non meriterebbe un rovella qualsiasi. Serve solo come pre-testo – a proposito delle cose per caso di cui sopra – per soffermarsi, per amore del curatore di OE, del passaggio citato a proposito della pubblicità. Il protagonista del romanzo, narra Roth, da giovane aveva velleità artistiche. Ma essendo – secondo sua stessa ammissione – un conformista e alla ricerca di un lavoro tranquillo, va a fare il pubblicitario. Copy e più spesso art director. Insomma, Roth dice le cose che ha scritto Anna Salvo a chiusura del suo intervento di sabato (CELA’, CONTROLLA SE E’ SABATO!!!) solo con più letteratura. La pittura è arte, la pub no. E ditelo a Dolce&Gabbana. Ok, abbrevio. Tante critiche e tanti elogi al bravo fotografo, ma si approfitti del tabù infranto presso i catto e i comunisti (sia detto senza livore alcuno: faccio parte della seconda categoria) al governo della regione e si svecchi un po’ di cartellonistica e dinamica delle città della calabria. Giovani eclettici frustrati art©, osate. Finalmente potete giocare con l’apparato linguistico dei Sacri Testi, dalla Bibbia al Capitale. Sottoponeteci in chiave calabrotta i Sette Peccati Capitali (non è la calabria la terra del peccato? Tipo: “poteva essere
Headline(s)
Calabria. Terra del peccato.
Calabria. Terra invidiosa/irosa/accidiosa/etc.
Ricorda che i sette peccati sono: ira, accidia, invidia, superbia, gola, lussuria, avarizia.
lussuria
Siete calabresi?
Si, e si vieni nù/tù mintimu.
Calabria. Terra del Peccato.
E poi: peccato non venirci. E joint-venture con Algida per i gelati peccaminosi.


Inoltre. E’ noto come Wolfe abbia scritto il suo libello raccontando della famosa festa di Leonard Bernstein a Park Avenue, in New York. Bernstein è il famoso compositore delle musiche di “West Side Story”, musical che cercava di avvicinare la musica d’elite ai gusti popolari (per completezza d’informazione, lo faceva anche con dei seguitissimi programmi radiofonici). Beh, il noto compositore organizzò un megaparty nel suo iperattico di NY dove ospiti d’onore erano le Black Panthers, le quali dovevano racimolare 100mila dollari per pagare la cauzione di una ventina di compagni in galera. Insomma, Bertinotti o Bernstein, la rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma almeno la si faccia con buon gusto. Il concetto di Wolfe era più o meno questo: ridicolizzare l’alta società newyorchese che sosteneva la lotta del popolo afroamericano.
Andiamo a sinistra. Gramsci – semplificando, certo, e me ne scuso – sostiene che c’è il popolo che non segue adeguatamente lo svolgimento delle attività culturali: di ciò non attribuisce colpe al popolo, ma agli intellettuali che non conoscono i problemi del popolo. Non sfugge a nessuno, però, il passaggio che l’amato Antonio dedicava agli intellettuali: “andate al popolo”. Per fare che? Ma per contribuire all’elevazione culturale delle masse. Quindi, mi pare, che il popolo non aveva gusti culturali da sorreggere, bensì da affinare (del resto, non era Carletto Marx – sempre se non mi sbaglio – che indagava con sospetto sui romanzi popolarissimi di Eugene Sue?). Tirando un poco le somme, che mi sono seccato di scrivere: Leonard Bernstein, l’archetipo del radical chic è uno dei pochi intellettuali che, con successo, sono “andati al popolo” seguendo l’insegnamento gramsciano. La via oggi è difficilmente percorribile: è meglio fare un sondaggio sui gusti del popolo, avete ragione, intellettuali con collaborazioni coordinate e continuative col potere dominante. E fate venire Gigi D’Alessio. Ma non soffiate sulle ceneri di Gramsci.
(Lo sapevo che avevo ragione. La mia presunzione avrà dei limiti, ma per ora rimangono ignoti).
P.S.: Titolo dell’otto ottobre 2004 dell’inglese Sunday Times: “Un filosofo francese radical chic muore all’età di 74 anni”. Il filosofo era Derrida.
P.P.S.: George W. Bush ha sempre sul comodino, insieme alla Bibbia, un libro di Tom Wolfe.
P.P.P.S.: In fondo penso che Gigi D’Alessio sia stata l’unica scelta possibile sulla piazza: tutti gli altri o erano impegnati altrove, o a Cosenza c’erano già stati. O costavano troppo: mi hanno riferito di un contatto con Fiorello: prezzo del concerto 500mila euro.

«Ogni antintellettualismo finisce nella morte del linguaggio, ossia nella distruzione della socialità» poiché «il piccolo borghese è un uomo incapace di immaginare l’Altro».
Roland Barthes, Miti d’oggi
Celanù, il pezzo che segue lo avevo scritto qualche mese fa per l’esordio di un giornaletto di partito che doveva uscire ma, credo, non se ne farà nulla. Te lo rifilo, fanne l’uso che ritieni più opportuno. Ah, mi raccomando: correggi se vedi qualche orrore: anche se preferirei lasciassi gli errori. Spesso ciò dà l’impressione di essere virili intellettuali.
MEZZO MESSAGGIO
Di Vincenzo G. Rovella
Avvertenza: quella che segue è una lagna nostalgica sui bei tempi che furono. Quelli in cui esisteva una qualsivoglia critica dei testi, quando si esprimevano opinioni sui libri, sui dischi, sui film, sulle tele-visioni. Quando c’erano le stroncature e le esaltazioni. Quando il testo aveva il sopravvento sull’autore, sull’editore, sul lettore – su quest’ultimo se e solo se non dimostrava un po’ di collaborazione, beninteso. Insomma, quando non c’erano le Recensioni. Oggi non si fa critica, nemmeno a pagamento: oggi si recensisce. Certo: per recensire si deve esser pagati. Gratuitamente non si riempie nessuna gabbia tipografica, nemmeno quella del più misero giornaletto degli scout. E poi recensire non costa fatica: talvolta si legge un testo – più spesso se ne legge – si fa il riassuntino (essere andati al liceo classico aiuta ma non è indispensabile: ci sono geometri che riescono a farne di meravigliosi, grazie a Google), si pestano duemila battute con l’ausilio di un word processor (che ha pure i sinonimi & contrari e il controllo grammaticale ed ortografico che se volessi sottoporgli questo mio testo andrebbe in crash) et voilà: ogni quotidiano ha la sua bella paginatrè. E così si recensisce l’ultimo testo del Famoso Autore: perché innanzi tutto ci deve essere l’Autore, e poi deve essere Famoso. Inoltre, come s’è detto, non si stronca nulla: solo un po’ – ma ogni tanto, senza esagerare, mai s’abbia a pensare che si sta criticando – qualche notuccia d’antipatia per un programma televisivo, unico testo che ancora benevolmente risente dello snobismo intellettuale di antichi e nuovi recensori (Sergio Saviane e Curzio Maltese, ad esempio). E sui videogame, dove torme di fruitori hai voglia di prenderli in giro se gli dici che un gioco di rugby è bello come quello del calcio: te li trovi sotto casa che ti aspettano con la spranga.

Ascoltavo, qualche giorno fa, una trasmissione radiofonica della RAI (Vasco De Gama, conduttori Davide Riondino e Dario Vergassola). Si faceva una simpatica intervista a Milena Gabbanelli. La nota giornalista di Report era lì evidentemente per divertirsi e farsi amabilmente sbeffeggiare dai due impertinenti conduttori. Si cercava di parlare poco del programma, di giornalismo, etc. ma invano. Ad un certo punto, Riondino tenta con una domanda di carpire alla Gabbanelli un po’ di privacy: “…ma che film ti piacciono, per esempio”. E lei: “Io sono capace di andare a vedere un film anche solo per una battuta. Avete presente il film “Men of Honor”, quello con Robert De Niro che fa l’addestratore dei palombari? Ecco in quel film (la faccio breve e la cambio un pò, la citazione era più lunga, N.d.R.) De Niro si accanisce contro il potere a favore del palombaro nero (Cuba Gooding Jr, ancora N.d.R.). Ad un certo punto, il nero domanda al capo palombaro De Niro: “Ma chi te lo fa fare?”. E qui tutti si aspettano il discorso sui diritti, sulla giustizia…ed invece De Niro risponde: “Perché mi piace rompere il cazzo”.”
Colgo l’occasione per rimarcare che a CO non solo per professione non ci si fa i c… nostri (mettere al posto dei puntini le lettere “azzi”) ma, addirittura, si addestrano palombari. No, scusate, la metafora non è pertinente, non è questo che volevo dire. Volevo dire che a CO ci piace rompere il cazzo. Senza puntini.
(Pubblicato su OE di CalabriaOra)
Cari refuso76 et al.,
cercherò di dirvelo refuse:
da qualche giorno non leggo più l’esilarante “(Tratto da un’opera letteraria)” dopo ogni film segnalato sulla pagina dei palinsesti TV. Credendo di essere il solo a leggere la pag. dei programmi televisivi, non ve lo avevo indicato perché volevo tenerlo tutto per me. Sono un affezionato dei refusi, mica un fondamentalista come voi. Canaglie, mi avete fregato.
In compenso, come statunitense ho brindato per un mondo di pace e libertà, alla faccia vostra. Come italiano, ho brindato alla guerra e alla tirannia. Intelligenti pauca.
(Minchia, tre citazioni in latino: si vede che sto studiando da latin lover).
Un bacio (alla francese, tanto per cambiare lingua)
Vincenzo Glenn Rovella
(Mandato alla rubrica "Abbiamo sbagliato" di CO e pubblicato)
E bravo il mio CalabriaOra! Era ora – appunto – che si facesse conoscere al mondo l’esistenza del BURC. Come ho saputo della sua esistenza, ho immaginato che fosse una rivista di fumetti edita dalla Regione Calabria: il titolo sembra un’onomatopea (immaginate il Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte! Un rutto!). Invece no. Era (è) un organo d’informazione di tutti gli atti della Regione Calabria, in quanto Istituzione. Consultabile su internet, pure. Voci incontrollate sono state diffuse: pare che il numero di lettori sia aumentato del 500% (quindi passato a cinque) nella prima settimana a partire dall’inchiesta sulla Censura del Burc, per poi ritornare sulle cifre abituali (pari a zero). Vabbè, esistono pagine stampate su scrivanie di politici ed imprenditori, ma pare siano apocrife. Non parliamone adesso, poi, che saranno censurate…Meno male che, tra gli altri, un importante impiegato ed un valentissimo Docente dell’Unical si sono espressi contro questa talebanizzazione del Bollettino. E vedo che ancora se ne parla. Segno che CO ha colto nel segno. (Perché di segno, si tratta). Se pare che io stia cazzeggiando, e mi si voglia sbandierare Questioni di Principio, allora che si vada avanti! Si costituiscano Bollettini per tutti gli enti! Si cominci – approfittando degli accademici che moralmente discettano sull’argomento – costituendo il BUU. Dove U sta per Università. Cosicchè potremo sapere a chi vanno gli appalti, come e quando si fanno concorsi per le assunzioni, per il reclutamento dei ricercatori, dei Professori (la limpidezza! La trasparenza! Patrimonio dell’Accademia!). Così potremo finalmente verificare se alcuni cognomi di vecchi e nuovi docenti sono uguali solo per omonimìa (lungi parentopoli dall’Università!). Constatare che tutti, nelle Università, vi lavorano per merito (lungi le segreterie politiche, le camere da letto, i deschi familiari dall’Accademia!).
(Nota per il Magnifico Rettore Latorre: lungi da querele il sottoscritto! Non ho parlato delle modalità di accesso alla SSIS, oh stimatissimo consulente del Ministro Bianchi, il quale è noto per essere già Suo sodale in Progetto Calabrie quando facevate la morale ai partiti ed alle loro smanie di prendere possesso di poltrone.)
Lo confesso subito: non sono un garantista. Non sono nemmeno un giustizialista, però. Mi spiego: non posso essere garantista, ed essere accomunato a un – che ne so – Salvatore Frasca, Pietro o Giacomo Mancini jr. Né tantomeno essere giustizialista ed essere accostato – seppur idealmente – ad Antonio Di Pietro o a Marco Travaglio. Sono quindi in quell’area mediana che decide se essere garantista o giustizialista a seconda dei casi. Mica sono un magistrato, io. Forse risento troppo dell’influenza positivista e veterosocialista del vecchio ed inattuale compagno Lombroso, forse sono un po’ comunista (in senso berlusconiano). Gli è che se arrestano Previti tanto garantista non mi ci sento. Se arrestano Pacenza sono pronto ad andare a piedi a Catanzaro per protestare contro quello che mi sembra un abuso. (Ed ho detto tutto. Già andare a CZ mi sembra una penitenza: andarci a piedi, poi…). Comunque, lì c’è il TAR. Che di questi tempi è come S. Francesco di Paola: fa miracoli di giustizia. Tipo quello della capretta, uccisa ingiustamente e risuscitata dal Santo.
Ci sono sventuratamente molte maniere di farsi falsi giudizi. Ciò può derivare:
1) dal non esaminare se il punto di partenza è esatto, affannandosi poi a trarne conseguenze logicamente giuste; è un caso molto comune;
2) dal trarre conseguenze arbitrarie da un principio generalmente accettabile: per esempio, un domestico è richiesto di dire se il suo padrone si trova in casa da gente malintenzionata: se è abbastanza sciocco da dir loro la verità, in ossequio al principio che non si deve mentire, è chiaro che applicherà in maniera balorda un principio in sé verissimo; così un giudice che condannasse un uomo per aver ucciso un suo assalitore, in ossequio al principio che bisogna punire l’omicidio, sarebbe tanto iniquo quanto cattivo ragionatore.
Simili casi poi si suddividono in tanti sottocasi. Un cervello fino, ben in sesto, si orienta con facilità; ma non è comune: donde tante sentenze inique nei tribunali: non perché i giudici siano in sé malvagi, ma perché non sanno ragionare abbastanza bene.
Francois-Marie Arouet, noto giustizialista, sul caso Pacenza.
Pubblicato sul “Dictionnaire philosophique (voce «Esprit faux ») » col nickname di Voltaire nell’anno 1764.
La seguente segnalazione proviene dalla fonte inesauribile di Riccardo Tucci.
In macchina con un’amica. L’amica: “attento! per poco non facevamo
un facciale!”
Nota di VGR: Riccà, “facciale” è traduzione
dell’inglese “facial”. La parolina ha connotati specifici in campo pornografico (NON digitare la parolina su motori di ricerca).
Ora, la domanda vera è: cosa facevi con l’amica in macchina? La macchina era ferma?
Segnalazione di Francesca Tricarico
Ore 11: 20 collega (femmina)
...mi ha detto di rimanere in stenby con i test...
0re 13:37 collega (maschio e mezzo americano)
...Ti comunico che domani 08-02 non potrò essere a lavoro.
Le mie task saranno seguiti dai colleghi.
(Pubblicato su OraEsatta di CalabriaOra)
Raccolta ieri a Silvana Mansio:
“Dottò, oggi fa caldo, ma non è niente: alla televisione hanno detto che viene un caldo tropido.”
Dialogo registrato da Lucia Tricarico a bordo piscina:
“Monia sei riuscita a trovare il tesserino?”
“Non ancora, aspetta un momento... eccolo!
Chi cerca trova ...”
“... e i cocci sono i suoi”.
(Pubblicato su OraEsatta di CalabriaOra)
Signorina, lei è dura di comprensorio.
Quest’errore è da amputare a te.
Il linguaggio dei ciechi: la scrittura
Bernoulli.
Nell’ottica del dos de.
Te la mando per posta celebre.
Questa è la scintilla che ha fatto traboccare
il vaso.
Smettila di fare l’attaccabriglie!
Via San Quasimodo.
Non ne ho la più squallida idea.
Se son fiori fioriranno.
Le ore del mattino hanno il sole in bocca.
Dopo di ciò, assoluto totale.
Queste frasi matte hanno un debito con le gloriose sentinelle avvistatrici Riccardo Tucci, Armando Bloise, Sergio Sicoli e - ovviamente – Vincenzo Glenn Rovella e sono dedicate
a tutti gli ex-colleghi del Consorzio per l’Università a Distanza. In particolare a quelli
che non ci sono più.
(Massimo Celani, pubblicato su OraEsatta di CalabriaOra)
Fuori fa un caldo boia: c’è il diluvio universale. Ma devi uscire: c’è da far la spesa. Con i prezzi che ci sono in giro, ti ci vuole un portafogli a mastice. E per salire la spesa al quinto piano (“dove abiti?” “A PaniJancu” “a che altezza?” “al quinto piano”), si sudano le proverbiali cento camicie.
Ecco un brano di ordinaria conversazione in ufficio, di un giorno qualsiasi. Fatta di frasi matte, che suscitano nell’interlocutore – apparentemente fine dicitore di frasi assennate – subito il riso, lo sfottò. Ma poi subentra il dubbio. Cosa rende più l’idea del caldo catastrofico di questi giorni, un ovvio aggettivo come “infernale” o il paragone al Diluvio? E per fare la spesa, non ci
vorrebbero veramente meno scomparti di un mantice, e un po’ più di vecchio e sano
mastice per tenere chiuso dentro quell’euro rimastoci? E sette camicie a 40° si sudano in
un minuto. Insomma, adeguamento iconoclasta al logorìo della vita moderna: le frasi
matte “non sono stupide, anche se a volte sono stupidaggini: possono ispirare il dileggio
verso chi le pronuncia, ma molto spesso rivelano una logica nascosta delle
cose. Le frasi matte non svelano l’arcano – il che sarebbe banale, inutile, distruttivo –
ma lo svegliano: aggiungono alla realtà i pezzi che le mancano. Il Super-io telefona,
ma l’inconscio ride.” Dio è grande, ma manco il mio collega cugghiunìa.
Stefano Bartezzaghi ne ha raccolto un numero notevole e ne
ha fatto un’aggregazione in capitoli diversi all’interno di
un libro dal sottotitolo eloquente “frasi matte da legare”.
Le ha ricevute dopo un appello ai lettori e corrispondenti
della sua rubrica su web “lessico&nuvole”: l’appello a
tenere nota dei giochi che le parole fanno a noi. Non è il solito
stupidario: una raccolta di questo tipo è antipopolare
perché a compilarla sono i cultori di materie esoteriche, che
fra – diciamo - adepti ai lavori si divertono a prendere in
giro i non illuminati o i neofiti. Vi avverto che il libro va letto
con calma, possibilmente un paio di pagine al giorno, in ordine
sparso: si sgranocchiano gli occhi, provoca spasmi dolorosi
per il troppo ridere, e talvolta – ripeto - ci si ferma vergognosamente dubbiosi:
“che c’è di così sbagliato?” (mi è successo appena letta la frase “quel po’ po’ di dio!”).
Induce insomma al sorriso, al riso e alla meditazione.
Tutti, in fondo, pensiamo di essere persone che parlano condito. In realtà,
spesso parliamo per sentito dire. Come scrive B. “Il famoso verso dantesco “Non ragioniam
di lor, ma guarda e passa” (Inf. III, 51) normalmente viene citato con una deformazione:
“Non ti curar di lor…”. Non viene più percepito come frase matta, tanto
l’abbiamo sentito dire. B. afferma che è una frase matta tanto ricorrente da essere rinsavita.
Il volume è diviso in capitoli, dai titoli gustosi e dai contenuti succosi: mi permetto di
segnalare quello su Trapattoni per i redattori sportivi di questo giornale, quello sugli
errori di stampa a refus076 e cityrocker, tutto il resto a tutti quanti.
All’appello rispose anche il vostro attaccabriglie (v. pagg. 82, 124): con non celato orgoglio,
una delle frasi matte da lui inviate a Bartezzaghi è diventata titolo del volume.
Quale? Non ne ho la più squallida idea. Compratevi il
libro.
N.B. le frasi matte delle prime tre righe sono recentissime ed
ignote persino a Celani e Bartezzaghi.
Stefano Bartezzaghi, Non ne ho la più squallida idea. Frasi
matte da legare, Mondadori,2006
(Pubblicato su OraEsatta di CalabriaOra)
NON SONO D’ACCORDO CON LE POLITICHE CULTURALI DEL NOSTRO PARTITO
“Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe dappresso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta.”
(Guy Debord)
La quantità delle cose che non sappiamo è immensa, praticamente illimitata. Su questa usiamo ritagliare un piccolo quantitativo di conoscenze e informazioni che crediamo la nostra cultura.”
(Pier Paolo Pasolini)
(Giusto per intendersi sul senso della raccolta di citazioni che segue – e che precede: mi sembra del tutto inutile reinventarsi riflessioni – sicuramente facendo peggio, essendo in possesso di una modica quantità, per uso personale, di conoscenze ed informazioni).
“L’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente “sente”. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. (…)
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo (…) collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo (…)
Non si fa politica-storia senza la passione, senza cioè la connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporto di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio. Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, cioè si realizza la vita di insieme che solo è la forza sociale; si crea il “blocco storico”.
(Antonio Gramsci)
(Bisogna comprendersi, compagni: siete sicuri dell’attualità di Gramsci? Vi posso sottolineare il passaggio identificativo tra intellettuali=governanti=dirigenti versus popolo=diretti=governati? O abbiamo sposato l’idea – tutta liberale – dell’intellettuale affrancato dalla politica? No, eh? Bene. Posso continuare? )
(Guy Debord)
(Insomma ce lo dicono da un sacco di tempo, compagni: dobbiamo elaborare una superiore concezione ed organizzazione del mondo).
“Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”
(Pier Paolo Pasolini)
(Va bene, rivoluzione è una parola grossa: ma felicità? Qualcuno dice per caso “Non è per la felicità che si fa il Partito Democratico?” o “…che si fanno le riforme?”)
“Va bene: la mia può essere l’ottica di un “artista”, cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. (…) Va detto che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorchè sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli.
Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano, ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza.”
(Pier Paolo Pasolini)
Dire l’incredibile e fare l’improbabile: è giuso il tipo di vita che vorrei per me.
(Oscar Wilde)
(Fine?)
Un tributo a Dario Sala
“Ritengo che un’opera d’arte non sia altro che un caso particolare d’invenzione.
Un’invenzione non è un oggetto, bensì un concetto, ossia un’identità specifica, quella di cui l’inventore ritiene che un oggetto debba essere provvisto per essere efficace come mezzo per raggiungere un certo scopo.”
Luis J. Prieto, Saggi di Semiotica, vol. II, Pratiche ed., Parma 1991
Chissà se Prieto ha mai giocato col DAS. E se lo ha fatto, si è chiesto chi fosse il cretatore (la “t” è un lapsus, ma la lascio per puro divertimento) di quella invenzione. L’inventore era Dario Sala: le cronache ci dicono che era “utopista e pacifista”, nonché “antiquario e poeta, chansonnier e scrittore, reduce ed europeista”. Qualche parola messa insieme giusto per scrivere un coccodrillo il 31 gennaio di quest’anno, quando Dario Sala si è spento a 93 anni. Del resto, non è richiesto alle cronache dei giornali – che ci hanno dato la tristissima notizia proprio mentre ci si apprestava a fare un gioco col DAS all’Unical – analizzare ed approfondire. Né sapremmo farlo noi. Per questo ci limitiamo a dedicare questo modesto lavoro all’inventore DArioSala, che dell’invenzione ci guadagnò appunto solo l’acronimo – segno apparente di vanitas: in realtà firma dell’opera d’arte mai come in questo caso fusione totale coll’invenzione. Un tributo a chi ha voluto fare della sua immaginazione un prodotto open source, freeware (anche se poi se ne sono impadroniti per poche lire altri). Comunque riuscitissimo. Molti di noi ricordano con gioia le ore di educazione artistica alle scuole elementari, unico vero momento artisticamente pedagogico (anche quando si finiva per modellare falli di creta e farli trovare sulla cattedra alle maestre). Se qualcuno, da grande, finisce per divertirsi ancora col DAS, ci si può chiedere come faceva Dario Sala: “Il nulla è impossibile che ci sia. Nei prati, quei fiorellini piccoli e ben disegnati da chi sono andati a scuola?”.
Vincenzo G. Rovella.
(Pubblicato su OraEsatta – CalabriaOra)